Intervista alla cantante Miss Stereochemistry
Ciao Point & Comma! Noi siamo cinque extraterrestri che condividono un corpo umano. Tale corpo normalmente appartiene a Karla Hajman, ma noi lo usurpiamo a piacere per esplorare il genere umano, per poi illuminarlo sulle proprie contraddizioni per mezzo della musica. A tale scopo siamo armati con la chitarra, ukulele, pianoforte, la loop station e la voce. Ah, e una lingua sempre accuratamente depilata.
In che modo le tue esperienze di vita personale hanno influenzato, mutato e/o modificato la tua musica ed il tuo modo di comporre, visto che, come sappiamo, hai vissuto in molte città?
Dico spesso sul palco che non sono io ad avere un senso dell’umorismo, è la mia vita che è un comico - ed è vero – la vita che mi è stata finora regalata è un’intensissima raccolta di sorprese ed esperienze di ogni genere, e perciò influenza la mia arte in modo totale. Un argomento su cui scrivere, cantare e parlare non manca mai e il tempo di annoiarsi non ce n’è. Credo che nascere in un paese che non esiste più, caduto a pezzi tra due guerre civili, e poi spostarsi in altri 4-5 paesi europei sono una di quelle esperienze che spostano i limiti personali, ti aprono la mente (e il culo) come poche altre, quindi impossibile non sentirle nella composizione. Che è sempre sincera e più o meno diretta.
Per quale motivo definisci il tuo album un “killer di pregiudizi, privo di auto-censura”? Potremmo definire il tuo album quindi molto onesto e sincero?
“Ruins in Bloom” è un album molto onesto e sincero, come tutti gli altri che ho pubblicato, solo che è più diretto rispetto a SWEEP che lo precede per esempio. SWEEP parla degli stessi temi di “Ruins in Bloom” ma lo fa tra le righe; quest’ultimo invece toglie questa “autocensura”, che mi ero imposta soprattutto per non ferire chi mi stava vicino. Perché sai, nella vita non si è mai da soli e quando scrivi sulla propria intimità, volente nolente rendi pubbliche le cose che appartengono anche alle persone che ti stanno vicino. E magari loro non hanno voglia di parlarne. In quanto a killer di pregiudizi, lo è perché affronta i temi difficili con disinvoltura.
"Ruins in Bloom" è sia il titolo del tuo album, sia il titolo della prima track del tuo cd, che inizia ad immettere l'ascoltatore in ciò che lo attenderà. Ciò che viene detto nel testo del brano, rappresenta o meno il filone tematico trattato all'interno dell'album?
Bellissima domanda! Sì, il brano “Ruins in Bloom” centra il tema dell’album in pieno, da qui la scelta sia dell’omonimia, che del fatto che la traccia fa un po’ da Virgilio nel viaggio dentro l’album stesso.
La canzone parla della depressione come un processo di trasformazione e crescita, è un auto-pacca sulla spalla per essere riusciti a viverci insieme e farne un’amica. Parla del fare i conti con il lutto e la perdita, e di quanto assurdo è “perdere” qualcuno, quando in realtà non possediamo nessuno in primis. Ma fa male lo stesso.
Com'è stata generata la canzone "Anna's song"? In più ci dici come, generalmente, nasce una tua canzone?
Le mie canzoni nascono dalle esperienze di vita personali, e ciò che non riesco a dire solo a parole, lo dico per mezzo della musica. Scrivo d’impulso, musica, melodia e testo insieme con il registratore vocale acceso, improvviso e poi prendo le parti che mi piacciono di più. Queste incisioni improvvisate sono qualcosa che non condividerei con nessuno però! Sono molto più intime di un diario. In generale, sono una che la vergogna non la conosce, ma quelle tracce sono come quelle foto da bambini dove sei nudo a 360 gradi mentre mangi il proprio piede. Da non diffondere.
“Anna’s song” è dedicata ad una mia carissima amica (e una parte della mia famiglia estesa) di Berlino. Abbiamo entrambe vissuto la perdita di gravidanza a pochi mesi di distanza, e ci siamo trovate ugualmente isolate e sole: questo tema è tuttora un tabù assoluto e la gente che la vive evita di parlarne, perché trova poca comprensione ed empatia. Poi, una sera di esattamente due anni fa a Berlino (16.02.2013.!) ci siamo per caso trovate in un club, qualcosa ha fatto click e ci siamo raccontate tutto. Il sollievo è stato immenso per entrambe, e il giorno dopo lei si è beccata la canzone, ed è stata la prima a sentirla.
Di che cosa parla la canzone " The bravest man i know"? Chi è realmente il protagonista di questa storia che canti?
Domande stupende, davvero. La canzone l’ho fatta per un mio amico, Jesper, una delle persone che sono orgogliosa di aver conosciuto nella mia vita. E’ un musicista danese, uno con le palle come pochi. E non sono i suoi due gruppi musicali, Rusty Baathorns e Darligt Selskab, né la nomination per i Danish Music Award nel 2011, né la sua barca, né le sue 36 maratone più il record nazionale nella corsa di 100 metri sulla sedia a rotelle a renderlo unico. E’ il fatto che lui la vita se l’è ricostruita partendo da zero, dopo un incidente che lo ha lasciato seduto dieci anni fa, che lo rende l’uomo più coraggioso del mondo. E’ una battaglia quotidiana con l’amarezza infinita quella che combatte, e ogni mattina le dice: “Torna domani, io ho da fare”. E’ uno spirito selvaggio che neanche la rottura della spina dorsale poteva fermare. Un esempio per tutti con la sindrome di “vogliadifaresaltamiaddosso”. Perché, come dice la canzone, tutto quello che ci viene dato è un mucchio di mattoni, e la vita è quello che uno riesce a farne.
Siete i giornalisti più meticolosi che abbia finora incontrato! Grazie mille per la profondità dell’analisi! La sgramaticatezza voluta dell’inglese in quella frase era un tentativo di dialogo con la vita stessa. La canzone l’ho scritta in uno di quei primi attimi di sollievo che ho avuto in una depressione durata oltre un anno, un periodo dove ho scritto e fatto moltissimo, ma non riuscivo a vedere il processo intero in cui mi trovavo. Con quella frase volevo chiedere la mia vita, quella strada solitaria e assurda, chi fosse e dove mi trovavo. E siccome non avevo l’impressione di parlare né con un essere animato, né con uno inanimato, mi ha toccato fare un incrocio tra “what is this” e “who are you” per potermici rivolgere a lei. La solitudine e l’assurdità di cui parlo, però, non sono da prendere come cose “negative” di cui lamentarsi – è la natura stessa della vita essere assurda, e noi non abbiamo altra scelta che starle al passo, ovunque decida di portarci.
"Dream dream" è l'ultima canzone del CD di Miss Stereochemistry e nel brano parli di una coppia di innamorati. Quello che ci viene cantato, è frutto della tua immaginazione o c'è qualcosa di autobiografico all'interno di essa?
E’ tutto autobiografico lì, come ormai abbiamo capito. Parla sì, di due innamorati, di me e del mio ex, che all’epoca si trovava in India in un viaggio. Nonostante la distanza e i mezzi di comunicazione limitatissimi, riuscivamo a sentire quel che provava l’altro, anche senza parlarci per giorni. C’è capitato persino di sognare gli stessi sogni anche. All’inizio pensavamo entrambi di essere impazziti, poi ci faceva paura, ma poi abbiamo accettato questo fenomeno difficilmente spiegabile con la ragione. Una connessione bellissima che ha reso la fine della relazione durissima però, perché la “telempatia” reciproca è rimasta a lungo dopo che abbiamo deciso di chiudere. E poi, quando si legge nel pensiero l’uno all’altro, le mezze verità sono impossibili, come lo è il mentire a sé stessi.
Come immaginavi il tuo CD prima della sua produzione? Cosa hai pensato invece quando il disco ormai era prodotto?
Allora, per quanto riguarda la copertina del disco, avevo quell’idea in testa da mesi, ed averla realizzata esattamente come volevo è uno di quei casi rarissimi che un artista ha la fortuna di vivere! Il sollievo e la fortuna di esserci riuscita, insieme alla fotografa Milena Moebius, il costimografo Zoran Stevanovic e il pittore Paul Bradshaw, è pari credo solo a quel che si prova dopo un parto.
Musicalmente parlando, era il primo disco che non avevo prodotto da sola – in questi termini, lasciare la buona parte di produzione in mano a qualcun altro è un atto di fiducia sconfinato. Jason Rubal però ha fatto un ottimo lavoro. Come ogni artista, ho avuto un periodo dove adoravo l’album, seguito da un periodo dove lo odiavo e potevo solo sentire le cose che avrei cambiato, per poi arrivare alla fase dove dico: “Cazzo, e’ fighissimo invece!”
Facendo riferimento alla seconda domanda, che tu sappia, nelle diverse nazioni in cui hai vissuto, a livello musicale che movimenti underground vivono in questo periodo? Quale tra questi è il migliore ed il più attivo?
Dei movimenti underground ce ne sono tanti, nei paesi nordici domina il solito minimalismo svedese/scandinavo, Barcellona è un mosaico strambo stile Gaudi di tutto e di tutti, dove il cantautorato incrocia l’arte circense, la musica di strada incontra quella meditativa, ecc… Londra è soprasatura di artisti e di movimenti vari, ma come Berlino prende sempre più piega verso l’indie, il cantautorato solista con contaminazioni elettroniche. L’Italia cambia moltissimo da regione a regione, e per quanto difficile è portare l’innovazione nel Bel Paese, trovo ci sia una grande richiesta e un grande bisogno di essa – lo stivale è tutto fuorché dormiente, basta scavare un po’.
Qual è la scena migliore è difficile dirlo; Berlino al momento è en vogue e una cosa che piace molto di questa città è la sua apertura e tolleranza. La città ha rubato il mio cuore grazie ad una scena artistica collaborativa, dove ci si aiuta reciprocamente a crescere, creare, suonare, incidere, pagare gli affitti, dichiarare i redditi (!Un MUST nella Tedeschia!)… per questo il mio prossimo album sarà dedicato al mio commercialista (e non è uno scherzo…).
L’unica critica e cosa che intristisce dappertutto è l’autogol che la scena alternativa si fa periodicamente, ed è l’eccessivo conformismo al movimento maggiore, che in questi anni è la hipsteraggine radicale che dilaga. Cosi quel che una volta era innovativo diventa il nuovo conformismo, portato in più ad estremi ridicoli. Ma sono forse solo io che vivo a Neukoelln (il quartiere più gentrificato di Berlino).
Ps. Grazie di avermi dato l’occasione di spiegare le cose dette tra le righe anche per lo scritto e non soltanto dal palco